alessandro monti
"unfolk"

...i really dig this album in its entirety because it manages to walk a flawless fine line between imaginary and actual ethnic music. on top of that "unfolk" retains in each track a dreamlike quality which makes for a great listening experience when, like it often happens to me, i crave detachment from the daily audio clichés we're all forcibly exposed to. every piece has moments of magic dripping from the disc... (alex masi)

   

ecco un altro di quei lavori storti che piacciono a me: sghembi, che suonano strani, che non si sa dove mettere né come chiamare. di quelli che bisogna fare fatica per raccontare perché le parole scappano via come gocce di mercurio in fuga che non vanno nella direzione giusta, di quelli che offrono pascolo abbondante e sempre straordinariamente diverso all'immaginazione. insomma, io un po' la storia dietro "la so": alessandro monti è un caro amico da tanti anni, ho seguito il formarsi di questo suo "unfolk" ancora da quando non si chiamava così ed i vari pezzi non avevano forma definita ed abitavano in grande parte solo nei suoi sogni. potrebbero essere frammenti di musica antica suonati oggi da uno sperimentatore, oppure vecchie registrazioni rielaborate da un abile manipolatore di software appassionato di progressive. un manoscritto ritrovato, un virus nella rete, un buco improvviso nella linea del tempo, o nulla di tutto questo.
"unfolk", dice monti, sta per "unorthodox folk music" o "non folk": gioco di parole spacciato un po' troppo frettolosamente come tale, ma in verità indecisione antica tra radici e suggestioni, segno del bilanciamento difficile tra i suoni entrati in testa seguendo la via del cuore o quella dell'orecchio. c'è un mandolino irlandese, presenza costante ma non vero e proprio punto di partenza, quanto pretesto per una tessitura di ascolti, di innamoramenti, di lontananze che allungano le braccia per chilometri segnando l'inutilità della loro misura di tempo e spazio: florian fricke, che stando ai giornali si sapeva scomparso, è invece una presenza tangibile che respira attraverso le dita di gigi masin accanto ad alex masi, chitarra di metallo liquido che sa attraversare oceani, un tappeto volante le percussioni di bebo baldan perennemente indecifrabili tra vero e sintetico accanto al violino di marco giaccaria che odora indiscutibilmente di india eppure anche d'inghilterra progressive, e che mai e poi mai diresti invece catturato in una prigione di periferia torinese larga due metri per due. e suono d'acqua, sassi, campanelli, animali volanti, foglie, nebbia elettronica. uno scherzo della vista.
ho trovato un posto giusto nello scaffale, proprio accanto ai cd di steve tibbetts, un altro visionario che sogna e fa sognare, un altro di quelli che ti indicano la luna armati solo di un sorriso.

unfolk sta per "unorthodox folk music" o "non folk" per dirla all'italiana. il problema della definizione é soltanto di carattere linguistico, é un gioco di parole ma pur sempre derivato da un termine inglese. ad un certo punto avevo deciso di intitolare il lavoro "non folk" perché mi sembrava più comprensibile e consono alla lingua italiana e per rispecchiare l'idea della tradizione, dei titoli e delle mie radici geografiche (un brano rimasto inedito é una versione di un'antica canzone lagunare "e mi me ne so 'ndao"). la negazione italiana su un termine inglese sembrava un po' improbabile. ecco allora che la parola unfolk aveva un significato compiuto e internazionale, formulata in uno stile in grado di descrivere perfettamente una musica dai suoni inconsueti; ho successivamente scoperto che il termine in rete esisteva già...
tutto ciò che avevo ascoltato fino a quel momento era uscito di getto in una forma nuova: la straordinaria capacità dei musicisti di arrangiare, mediare o mascherare, ha trasformato il lavoro, originariamente concepito come una serie di registrazioni o basi soliste, in un vero e proprio lavoro di gruppo. quel collettivo fantasma é riuscito nell'ardua impresa di connettere organicamente atmosfere spesso lontane tra loro. i brani con il violino coesistono assieme alle chitarre in un contrasto voluto che rispecchia e rappresenta l'origine ma anche l'evoluzione. il tutto viene assorbito simbolicamente nel brano finale da un rumore puro che copre ogni cosa, dando la sensazione di un vero e proprio salto nel vuoto. questa conclusione era stata concepita originariamente come la fine di maya, dell'illusione dell'esistenza.
il mistero della copertina (un disegno scoperto per caso a casa dei miei genitori) ha completato questa musica non ortodossa e trasfigurata, senza una vera e propria tradizione ma comunque tramandata oralmente, attraverso i dischi, la memoria o l'immaginazione come del resto avviene nel folk comunemente inteso... una figura angelica suona uno strumento ad arco ricavato da un cranio; un oscuro personaggio mascherato suona una chitarra rivelando, ad uno sguardo attento, il suo vero volto sotto la maschera: solo la musica può penetrare il mistero dell'esistenza e può contrastare la definitiva apparizione della morte e soltanto essa inspiegabilmente viene a salvarci dall'assenza di spirito, restituendo all'uomo quella magia e quell'amore perduto e dimenticato. il tutto si svolge sotto un'inquietante nuvola che abbraccia l'intera scena, una rappresentazione che simboleggia quasi una benedizione della natura... l'ambiguità é la realtà, la realtà é l'immaginazione, il sogno é la vita stessa.
(alessandro monti)



il sito di alessandro monti è www.unfolkam.it

 

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