detriti
   

la diga del vajont in copertina. il rumore dentro. forte, schiacciante, compresso, amplificato, distorto, insostenibile.
i detriti erano attivi tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta, hanno fatto pochi concerti, erano un gruppo scomodo, instabile. erano tremendi, ti mettevano addosso un misto di inquietudine e paranoia che poi non si riusciva a lavarsi più via di dosso. nel gruppo c'era gente da feltre, belluno, cadore: in una parola montanari. e dietro a ciascun pezzo ci stavano (e ci stanno, anche oggi dopo migliaia di anni) montagne di ragionamenti, strade, torrenti, motivazioni. stanno tutti lì, immobili, anche oggi. anche adesso. proprio come allora, il disco è violento, delirante, ispido e sfuggente. all'uscita (1993) -citando gli henry cow- venne definito un disco "bello come la luna e terribile come un esercito schierato". forse è il più geniale e stupendo disco di free music fatto in italia in quegli anni: è musica libera da schemi, regole, imposizioni, stili, remore. un disco caotico, sporco, disperato, estremo. ogni tanto non è musica: sono pallottole al cuore del perbenismo musicale. ogni tanto non sono canzoni: è un cane rabbioso che morde il silenzio. un disco indimenticabile come un incubo, irrinunciabile come l'aria. un disco che abbiamo deciso di riproporre.
la musica dei detriti non offre pace, oggi come allora. è il rumore dell'orizzonte troppo stretto, delle prospettive che non ci sono, della trappola del domani uguale all'oggi e dell'oggi uguale a ieri. tirare fuori dal dimenticatoio questo disco significa avere il coraggio di guardare dentro lo specchio e ritrovare, nascosta dietro i capelli bianchi e le rughe e la rassegnazione, proprio "quella" luce dentro gli occhi, e correre a cercarla negli occhi di tuo figlio. ecco perché è importante. ecco perché è importante spezzare la maledizione e riprendere in mano la vita.
 


angelo "belfa" zanin - cayenna 31.12.1992

se ascoltate bene questo primo lavoro del gruppo ”detriti” potete sentire una campana che ritmicamente annuncia i signori in stazione dell’arrivo imminente di un treno. questa musica è scomoda. ferisce come il vetro nascosto nell’erba malata delle stazioni di benzina. scomoda perché ci ricorda che il treno non è arrivato, non è mai arrivato. il treno delle grandi attese, del futuro più giusto è deragliato molte stagioni fa, carico di ideologie, riformatori, sogni barattati, compatibilità. viviamo l’inizio di un’epoca dove i futuri sono finiti: la planetarizzazione dei modelli di sfruttamento e dei modelli culturali ad essi collegati parla la lingua del nuovo ordine mondiale, di cogestione dei mercati, di luminose esistenze come clienti di merchandise, di data banks, di know-how, di teleutenti del virtuale. ma è una lingua vecchia, dal vocabolario misero come la vita che implica: dominio, lavoro, guerra, nazione, razza, religione. tutto ciò torna in gran spolvero visto anche lo sfacelo etico/economico del comunismo di stato. dai primi ’80 una sezione non indifferente di giovani delle società “occidentali” (termine che perderà il suo significato extra-geografico: oggi tutto è “occidente”) ha disperatamente scavato nelle macerie per ritrovare idee, materiali, alcuni tenaci non-pacificati per capire da dove proveniva il filo rosso che essi avevano in mano. filo rosso della libertà: ovvero lo spazio, il tempo, l’energia per esprimere al massimo livello sé stessi, iniziando dal restare in vita fino al dispiegarsi della propria felicità. filo rosso irriducibile alla logica del capitale e del suo simulacro socialstatalista. da allora, in questo movimento (che definisco "individualità in lotta per esperimenti di libertà collettiva") la frattura tra politica e cultura, pur sussistendo, è stata scossa dal (ri)apparire d’una presenza ingombrante dentro le iniziative (centri sociali, dischi, libri, ecc.), presenza spesso bastonata: la nostra vita. le giornate una dietro l’altra, che qualcuno ancora vorrebbe farci sacrificare per un treno che non passerà più. e questa lacerazione, tra ciò che si pensa e ciò che si è, o meglio ciò che ci lasciano essere, grida le mille lingue dei mille reietti, pazzi, cercatori del vuoto che intersecano la nostra quotidianità. mille come le voci dei detriti, la babele di una lucida rabbia. nell’attesa terribile e malinconica della guerra come prossima condizione, un lavoro che prosegue la magnifica teoria di gruppi frequentatori di “valichi” non turisticizzati: detonazione, i refuse it!, plasticost, gronge, franti, teatro quotidiano, e i dionisiaci panico. cose quasi sepolte: anche questo paghiamo in questa italia culturalmente laida... (stefano giaccone, 1993)

 


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